“Eichmann venne a trovarmi ad Auschwitz e mi fece conoscere i piani di azione nei vari paesi. Innanzitutto, l’alta Slesia e le parti adiacenti del governo generale dovevano essere poi, procedendo geograficamente, gli ebrei dalla Germania e dalla Cecoslovacchia, poi quelli dall’ovest: Francia, Belgio e Olanda. Abbiamo continuato a discutere il processo di sterminio. È emerso che solo il gas poteva essere considerato, perché per eliminare le masse che ci si aspettava dalle riprese erano assolutamente impossibili e anche troppo dure per gli uomini delle SS coinvolti, che dovevano sparare a donne e bambini”.
(tratto dalle memorie di Rudolf Höss, primo comandante del campo di Austhwitz)
Nel 1963 Hannah Arendt, filosofa ebrea tedesca allieva di Heidegger, dava alle stampe il suo libro “La banalità del male: Eichman a Gerusalemme“, dopo essere stata l’inviata del giornale “New Yorker” a Gerusalemme, dove si teneva lo storico processo ad Adolf Eichmann, che era stato appena catturato in Argentina.
Il pensiero della Arendt è sotto molti aspetti rivoluzionario, tanto che ad alcune comunità ebraiche sembrò quasi offensivo:
«Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme»
Un pensiero ancora oggi oggetto di discussioni e approfondimenti, che descrive l’”architetto dell’olocausto” (così venne soprannominato Eichmann) come un uomo assolutamente mediocre, ordinario, quasi insignificante, non intelligente né particolarmente malvagio, e sorprendentemente privo di dialogo con la propria coscienza.
Secondo la Arendt il male non è mostruoso, non è demoniaco, dietro di esso non vi è nessuna profondità, ma solo il nulla; esso non può essere radicale in quanto del tutto privo di radici, ma solo estremo, assoluto, non riconducibile a misura umana.
Il male è privo di pensiero, di ragione, e non è espressione della persona, ma la completa negazione di essa, ed è compiuto da “volontari inconsapevoli”, persone che rifiutano di pensare.
Ecco, il male è assenza di pensiero, assenza di quel dialogo che l’anima intrattiene con se stessa, ed Eichmann è risultato essere lo specchio dell’assoluta banalità del male, in quanto privo di pensiero, di anima, di essere.
L’idea di fondo, inquietante e spiazzante, che tanto ha fatto discutere se non indignare intellettuali ebrei e non, non è che tra noi si nascondono dei mostri, ma che tutti, a seconda delle circostanze, possiamo diventarlo.
Un’idea che più che indignarci, dovrebbe avviare ciascuno di noi verso una stagione fatta di domande nuove, assai più importanti delle risposte banali e rassicuranti di cui troppo spesso ci accontentiamo.
Una buona domanda è molto meglio di tante risposte!
FONTI:
- Auschwitz-Birkenau museum and memorial – www.auschwitz.org
- RaiCultura – Hannah Arendt e la banalità del male
- RaiScuola – Zettel presenta: Arendt e la banalità del male – Adriana Cavarero